L’intelligenza artificiale sta ridisegnando la nostra società, ma non lo fa per tutti allo stesso modo.

Le disuguaglianze nell’accesso alla tecnologia tra Nord e Sud del mondo restano profonde, così come il divario di competenze che separa chi può dialogare con le macchine da chi ne resta escluso.

Se applicata in modo responsabile ed etico, l’AI può diventare una leva di equità e trasformazione sociale, capace di ridefinire gli equilibri globali.

Perché ciò accada, serve un dialogo continuo tra settore privato, istituzioni, comunità scientifica e società civile. Solo attraverso la collaborazione e una visione comune possiamo sfruttare il potere dell’AI per costruire un mondo più inclusivo, equo e sostenibile per le generazioni future.

Dall’impatto ambientale all’impatto sociale dell’AI

Nel nostro articolo sull’impatto ambientale dell’AI abbiamo raccontato gli effetti ambientali dell’Intelligenza Artificiale Generativa, dal consumo energetico dei data center alle emissioni di CO₂, fino all’utilizzo di acqua necessaria per il raffreddamento dei server. Ora allarghiamo lo sguardo alla S” di ESG (Environmental, Social e Governance), per capire come l’AI incida sulle persone e sulle comunità. La tecnologia, infatti, influisce anche sul modo in cui lavoriamo, comunichiamo e partecipiamo alla vita pubblica. È qui che emerge il suo impatto sociale, che riguarda l’accesso, la rappresentanza e la giustizia.

L’impatto sociale dell’AI 

La “S” di ESG riguarda ciò che l’intelligenza artificiale produce a livello umano e collettivo: opportunità, diritti, accesso. Un’AI ben progettata può democratizzare l’accesso alla diagnostica medica in aree remote del mondo, come sta facendo il progetto Zipline in Rwanda con la logistica sanitaria predittiva. Ma può anche escludere sistematicamente intere categorie di persone dai servizi finanziari, come dimostrano i casi documentati di algoritmi creditizi che penalizzano quartieri a bassa densità di dati storici. La differenza non sta nella tecnologia, ma nelle scelte progettuali: quali dati raccogliere, quali obiettivi ottimizzare, chi siede al tavolo quando si decide.


Per questo l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (ONU – SDG 2030) considera la tecnologia una leva fondamentale per gli obiettivi di sviluppo sostenibile, ma solo se progettata secondo criteri di equità, trasparenza e responsabilità.

Anche gli ESG Index più recenti, indici finanziari che valutano le aziende su impatto ambientale, sociale e qualità della governance, iniziano a includere metriche legate all’AI, valutando l’impatto delle aziende su formazione, lavoro dignitoso e tutela dei dati.

Inclusione e bias algoritmico

Gli algoritmi apprendono dai dati. E quando i dati riflettono pregiudizi sociali, anche le decisioni dell’AI finiscono per riprodurli. È il caso dei sistemi di riconoscimento facciale che identificano con minore accuratezza i volti femminili o delle persone non bianche, come dimostrato dalla ricerca di Joy Buolamwini e Timnit Gebru del MIT Media Lab.

Per questo la Commissione Europea chiede che i sistemi AI ad alto rischio siano sottoposti a valutazioni di impatto e audit etici prima dell’uso.

Un’AI etica richiede dataset rappresentativi, la ridefinizione delle metriche di successo e la consapevolezza che ogni scelta tecnica è, in realtà, una scelta etica con conseguenze su vite reali.

Accessibilità e disuguaglianze digitali

Non tutti hanno le stesse possibilità di accedere all’intelligenza artificiale o di comprenderne i vantaggi.
Secondo la Commissione Europea, oltre 75 milioni di persone in Europa non possiedono competenze digitali di base. Questo significa che una parte significativa della popolazione non è pronta a usare strumenti di AI, né a riconoscerne i limiti.

Il rischio è la nascita di una nuova forma di divario digitale, in cui chi sa dialogare con le macchine, ottiene vantaggi economici e informativi, mentre chi ne resta escluso, vede ridursi le proprie opportunità.
Come ricorda l’UNESCO, l’alfabetizzazione all’AI è oggi una competenza civica, necessaria per partecipare in modo consapevole alla vita sociale e democratica.

Investire in accessibilità significa rendere l’AI comprensibile, accessibile e utile per tutti — non solo per chi lavora nel settore tecnologico.
Perché un futuro digitale equo dipende dalla capacità di tutti e tutte di usarla, e di usarla con senso critico.

AI e futuro del lavoro

L’intelligenza artificiale non si limita a sostituire attività ripetitive: sta ridisegnando il significato stesso del lavoro.
Secondo il World Economic Forum, entro il 2028 quasi il 44% delle competenze richieste cambierà rispetto a oggi. Cresceranno ruoli come AI trainer, prompt designer e data ethicist, figure capaci di unire tecnologia, analisi e pensiero critico.

L’AI amplifica ciò che sappiamo già fare, ma non può sostituire competenza, esperienza, intuizione o empatia.
Come sottolinea l’OECD, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che raggruppa 38 Paesi sviluppati, il rischio maggiore non è la perdita di posti di lavoro, ma la mancanza di programmi di riqualificazione che aiutino le persone a evolvere insieme alla tecnologia.

Le piattaforme di formazione digitale e le Università stanno già reagendo, introducendo corsi su etica, data literacy e comunicazione con l’AI. Perché nel futuro del lavoro non vincerà chi conosce più modelli, ma chi saprà farli dialogare con l’intelligenza umana.

Concentrazione del potere e disuguaglianze economiche

L’intelligenza artificiale non distribuisce il potere: tende a concentrarlo.
Secondo Bain & Company (2025), Microsoft, Amazon, Google, Apple e Meta rappresentano oltre il 70% del valore di mercato totale del settore. Google, Amazon e Microsoft controllano oltre due terzi del mercato cloud globale da 600 miliardi di dollari (Open Markets Institute), mentre nel primo semestre 2025, gli Stati Uniti hanno rappresentato l’83% del valore totale delle transazioni AI globali (Ropes & Gray).
Queste realtà possiedono non solo i modelli più avanzati, ma anche i dati, le infrastrutture e la capacità computazionale per addestrarli.

La conseguenza è duplice: da un lato, una crescente dipendenza di piccole imprese e istituzioni pubbliche da piattaforme private; dall’altro, un rischio di asimmetria cognitiva, dove pochi decidono come l’AI interpreta il mondo per tutti.
Organizzazioni come OpenAI, Anthropic o Google DeepMind dichiarano di voler “democratizzare” l’intelligenza artificiale, ma il controllo effettivo dei modelli resta nelle mani di pochi attori industriali e finanziari.

Questa concentrazione solleva una domanda cruciale: chi garantisce che l’AI generi valore collettivo e non solo profitto privato?
In assenza di una governance condivisa, il rischio è che l’AI si trasformi in una nuova forma di oligopolio digitale, capace di orientare mercati, opinioni e comportamenti sociali con un livello di trasparenza ancora insufficiente.
La vera innovazione, oggi, non è creare modelli più potenti, ma sistemi più equi.
Perché un’AI sostenibile non può esistere senza una redistribuzione del potere e della conoscenza.

Su questo punto interviene anche Anthropic, che nel suo recente AI Economic Futures Report (2025) sottolinea come l’adozione su larga scala dell’AI rischi di accentuare disuguaglianze se non accompagnata da nuove politiche redistributive.

Secondo l’azienda, è necessario avviare subito una riflessione su quali strumenti i Governi possono adottare per gestire gli impatti economici e occupazionali dell’AI, qualunque forma assumano.
Le proposte variano a seconda degli scenari:

  • Formazione e riqualificazione dei lavoratori per i contesti meno impattati;
  • Assicurazioni e fondi di transizione per i lavoratori sostituiti dall’automazione nei contesti intermedi;
  • Fondi sovrani nazionali o tasse sull’automazione e sul compute nei casi più estremi, dove il lavoro umano perde peso e il valore si concentra nelle mani di pochi attori tecnologici.

Come scrive Anthropic, “non sappiamo ancora quali saranno le politiche migliori, ma è urgente iniziare ora la conversazione”.
Solo una governance economica condivisa — tra Governi, imprese e società civile — potrà evitare che l’AI amplifichi il divario di potere che già caratterizza l’economia globale.

AI civica e intelligenza collettiva

In tutta Europa stanno crescendo progetti di AI civica, nati dal basso per rispondere a bisogni sociali concreti: monitorare la qualità dell’aria, analizzare i bilanci pubblici, favorire la partecipazione dei cittadini alle decisioni locali.
Il Civic AI Lab di Amsterdam ne è un esempio: un laboratorio pubblico-universitario che sviluppa modelli per contrastare le discriminazioni e migliorare i servizi urbani.

Iniziative come questa dimostrano che la tecnologia può diventare un bene comune, se orientata a migliorare la vita delle persone.
L’intelligenza artificiale, in questo senso, può diventare uno strumento di cittadinanza attiva. Il suo impatto dipende dal modo in cui la collettività sceglie di usarla e condividerla.

Open Source nell’era dell’AI

L’adozione di modelli aperti

L’AI open source sta trasformando il modo in cui la conoscenza tecnologica viene prodotta e condivisa. Sempre più aziende e centri di ricerca rilasciano pubblicamente modelli linguistici, dataset e architetture di training, favorendo un accesso più equo e collaborativo.
Esempi come Mistral 7B, Llama 3 e le iniziative di Hugging Face mostrano come l’apertura dei modelli non sia più un esperimento accademico, ma una scelta strategica che accelera la ricerca e consente anche alle PMI di innovare senza dipendere dai giganti del settore.
Tuttavia, come evidenzia McKinsey (2025), oltre la metà dei leader tecnologici segnala sicurezza e conformità normativa come le principali barriere all’adozione di modelli open. La libertà di accesso porta con sé nuovi rischi: uso improprio del codice, vulnerabilità nei dati e difficoltà di garantire trasparenza e qualità.
L’obiettivo non è limitare l’apertura, ma accompagnarla con regole chiare di accountability e audit indipendenti, affinché la democratizzazione dell’AI sia reale e non solo dichiarata.

La responsabilità dell’open source

In Europa stanno emergendo progetti che dimostrano come l’AI open possa coniugare innovazione e impatto sociale.
La francese Mistral AI ha pubblicato modelli ad alte prestazioni accessibili alla comunità scientifica; piattaforme come Hugging Face rendono disponibili migliaia di modelli e dataset riutilizzabili; il programma AI4Good Lab integra approcci open per progetti legati a sostenibilità, educazione e salute pubblica.
Queste esperienze mostrano che apertura non significa assenza di regole, ma responsabilità condivisa: watermarking dei contenuti, standard etici comuni, governance trasparente dei dati.
L’open source, se guidato da visione e consapevolezza, può diventare una leva di democrazia tecnologica, restituendo alle persone la possibilità di comprendere, usare e migliorare la tecnologia che le riguarda.

Governance e regolamentazione 

L’AI Act europeo

Il 1º agosto 2024 è entrato in vigore il regolamento europeo sull’intelligenza artificiale che mira a promuovere lo sviluppo e la diffusione responsabili dell’intelligenza artificiale nell’UE.

Proposta dalla Commissione nell’aprile 2021 e approvata dal Parlamento europeo e dal Consiglio nel dicembre 2023, la legge sull’AI affronta i potenziali rischi per la salute, la sicurezza e i diritti fondamentali dei cittadini. Fornisce requisiti e obblighi chiari a sviluppatori e operatori per quanto riguarda gli usi specifici dell’AI, riducendo nel contempo gli oneri amministrativi e finanziari per le imprese.

Per le aziende, l’AI Act significa responsabilità condivisa tra chi sviluppa, distribuisce e utilizza i sistemi di intelligenza artificiale.
Le imprese dovranno documentare i processi di addestramento dei modelli, garantire la trasparenza dei dati e istituire meccanismi di supervisione umana.
Per la pubblica amministrazione, l’impatto è ancora più significativo: dovrà integrare principi di etica, inclusione e sicurezza digitale nei bandi pubblici e nei servizi ai cittadini.

La Commissione Europea ha avviato programmi di supporto per aiutare le PMI e le PA a conformarsi alle nuove regole, riconoscendo che la governance dell’AI non è un esercizio burocratico, ma una nuova forma di fiducia istituzionale.

Il quadro normativo europeo dell’AI

L’AI Act è solo una parte di un ecosistema normativo più ampio che include il Digital Services Act, il Digital Markets Act e il Data Act.
Insieme, queste leggi mirano a creare un mercato digitale equo, trasparente e interoperabile, dove i dati diventino una risorsa comune e non un vantaggio competitivo per pochi.

Questo approccio europeo alla governance tecnologica è unico al mondo: cerca di conciliare innovazione e diritti, apertura e controllo, economia e valori civici.
Non a caso, diversi centri di ricerca, tra cui il CEPS e l’Alan Turing Institute — lo considerano un modello replicabile anche a livello globale.

La sfida ora è attuarlo davvero: trasformare la regolamentazione in cultura, e la cultura in scelte concrete di responsabilità sociale e tecnologica.

I cinque principi per una Good AI Society

Nel 2018 il filosofo Luciano Floridi e la piattaforma europea AI4People hanno definito le basi per una “Good AI Society”: un modello di sviluppo tecnologico orientato al benessere collettivo, non solo all’efficienza economica.
L’obiettivo è integrare l’intelligenza artificiale in modo etico, trasparente e inclusivo, allineando l’innovazione con i valori fondamentali dell’umanità.

Secondo il AI4People Ethical Framework for a Good AI Society e le linee-guida dell’Alan Turing Institute, i cinque principi chiave sono:

  1. Beneficenza – promuovere il benessere umano e sociale attraverso l’AI, riducendo le disuguaglianze e favorendo l’inclusione.
  2. Non maleficenza – prevenire danni, abusi o usi impropri dei sistemi automatizzati.
  3. Autonomia – garantire la libertà di scelta e la possibilità di intervento umano in ogni processo decisionale automatizzato.
  4. Giustizia – assicurare equità, trasparenza e accesso equo ai benefici dell’AI.
  5. Spiegabilità – rendere i modelli comprensibili, interpretabili e verificabili da persone non esperte.

Questi cinque principi sono alla base delle politiche europee sull’intelligenza artificiale e ispirano molti framework di Ethical AI Governance a livello globale.
L’etica, in questo contesto, non è un vincolo, ma una condizione per l’innovazione sostenibile: perché una tecnologia davvero intelligente non migliora solo le macchine, ma anche le persone che le usano.

Italia vs Europa: il divario etico

In Europa cresce la consapevolezza sull’etica dell’intelligenza artificiale, ma il quadro non è uniforme.

In Italia, secondo il Rapporto AgID 2025 “L’Intelligenza Artificiale nella Pubblica Amministrazione, sono stati censiti 120 progetti AI in 45 amministrazioni centrali, ma solo il 22% di questi prevede indicatori di performance misurabili e appena il 40% rispetta gli standard internazionali di qualità dei dati (ISO/IEC 25012).

Nei Paesi nordici, invece, le strategie pubbliche sull’AI puntano da anni su trasparenza, partecipazione e accountability, integrando principi etici fin dalle fasi di progettazione dei servizi digitali.

Il nuovo disegno di legge italiana sull’AI, approvato alla Camera nel 2025, ribadisce concetti come la tutela del dibattito democratico e la sovranità tecnologica, ma con definizioni ancora vaghe e applicazioni incerte, perché una buona regolamentazione non basta, serve una cultura della responsabilità condivisa, capace di rendere l’AI non solo conforme alle norme, ma realmente al servizio delle persone.

Il divario non riguarda solo le regole, ma anche la formazione.
Nei Paesi del Nord Europa, i corsi di AI literacy e di etica digitale sono integrati nei programmi scolastici e nella formazione professionale. In Italia, invece, la cultura dell’AI rimane confinata a pochi ambiti accademici o settoriali.
Questo genera un paradosso: usiamo sempre più strumenti basati su intelligenza artificiale, ma non ne comprendiamo ancora davvero le implicazioni sociali e morali.

Colmare il divario significa investire in formazione trasversale, ma anche in collaborazione tra pubblico, privato e terzo settore.
Come evidenzia la Commissione Europea, l’etica non è solo un insieme di norme: è una competenza da apprendere, praticare e condividere.
Perché una società digitale giusta non si costruisce con le tecnologie più avanzate, ma con cittadini consapevoli e istituzioni capaci di guidarle.

AI for Good: opportunità o AI-washing?

Nel 2018 le Nazioni Unite hanno lanciato la piattaforma AI for Good, con l’obiettivo di utilizzare l’intelligenza artificiale per accelerare il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG): dall’educazione alla salute, dal clima alla parità di genere.
Oggi la rete conta oltre 50 agenzie ONU e centinaia di partner globali impegnati a promuovere un’AI che generi benefici concreti per la società. I casi d’uso sono numerosi: modelli predittivi per individuare aree a rischio di alluvioni, sistemi di diagnosi precoce nei Paesi a basso reddito, piattaforme educative per migliorare l’accesso all’istruzione in aree rurali.

Secondo l’International Telecommunication Union (ITU), un’AI responsabile può contribuire fino al 70% dei target dell’Agenda 2030, a patto che sia sviluppata secondo principi di trasparenza, equità e inclusione.
Tuttavia, come avverte il World Benchmarking Alliance – Digital Inclusion Benchmark, molti di questi progetti restano piloti isolati, difficili da scalare e da monitorare in modo indipendente. L’AI può fare del bene — ma solo se le promesse di impatto vengono accompagnate da misure concrete di accountability e valutazione etica.

Negli ultimi anni, l’etichetta AI for Good è comparsa in centinaia di conferenze, programmi corporate e startup, spesso senza una reale misurazione del loro impatto sociale.
È qui che nasce il termine AI-washing, un fenomeno simile al green-washing: promuovere iniziative apparentemente etiche o solidali per migliorare la reputazione, più che per produrre cambiamento reale.
Come ricorda il filosofo Luciano Floridi, «una buona AI non si misura da quanto promette, ma da quanto rende il mondo più giusto e più umano».

Mancano ancora standard condivisi per valutare l’impatto sociale degli algoritmi, ma l’OECD AI Policy Observatory e la Commissione Europea stanno lavorando a framework di AI Impact Assessment per colmare questo vuoto.

Una sfida contemporanea: come misurare l’impatto sociale dell’AI

L’Intelligenza Artificiale Generativa è entrata nei sistemi economici, nelle istituzioni e nelle comunità, ridefinendo il modo in cui prendiamo decisioni, lavoriamo e partecipiamo alla vita collettiva.
Se continuerà a essere sviluppata e governata da pochi attori globali, diventerà una tecnologia di concentrazione, capace di amplificare disuguaglianze e asimmetrie di potere. Se, invece, sarà compresa, regolata e condivisa, potrà diventare una leva di riequilibrio sociale e culturale.

L’impatto dell’AI non si misura solo in termini di produttività o innovazione, ma nella qualità delle relazioni che produce, tra persone, istituzioni e conoscenza.
Costruire un ecosistema di intelligenza artificiale equo significa riconoscere che ogni scelta tecnica è anche una decisione politica. E che il vero terreno dell’innovazione non è l’algoritmo, ma la società che decide come usarlo.

KEY TAKEAWAYS: AI e sostenibilità sociale

Dati chiave

  • Divario competenze: in Europa 75+ milioni di persone non hanno competenze digitali di base → rischio esclusione dagli strumenti di AI.
  • Skills in trasformazione: entro il 2028 cambierà il 44% delle competenze richieste (World Economic Forum).
  • Concentrazione del potere: Microsoft, Amazon, Google, Apple, Meta = >70% del valore di mercato AI; Google, Amazon, Microsoft = >⅔ del cloud globale (~$600B).
  • Geografia degli investimenti: nel 1H 2025 gli USA = 83% del valore delle transazioni AI globali.
  • Regolazione UE: AI Act in vigore dal 1° agosto 2024 → requisiti di trasparenza, valutazioni di impatto, supervisione umana.
  • Alfabetizzazione AI per tutti: lanciare percorsi di AI literacy e data literacy per cittadini e dipendenti (moduli beginner + etica + limiti dei modelli).
  • Audit bias & accesso: introdurre AI Impact Assessment per i casi ad alto rischio (dataset rappresentativi, metriche di fairness, audit indipendenti).
  • Reskilling mirato: piani di riqualificazione per ruoli a medio impatto e assicurazioni/fondi di transizione dove l’automazione sostituisce lavoro.
  • Procurement responsabile (PA & PMI): clausole AI Act-ready (trasparenza dati, human-in-the-loop, tracciabilità) nei bandi/contratti.
  • Open & civic AI: investire in modelli open e progetti civic tech (es. laboratori cittadini, monitoraggio servizi urbani) per ridurre lock-in.
  • Governance multi-stakeholder: tavoli permanenti tra imprese, PA, università, società civile per definire obiettivi sociali misurabili.

Rischi da gestire

  • Bias e discriminazioni (es. riconoscimento facciale meno accurato per donne/persone non bianche) → necessarie metriche di equità e dataset inclusivi.
  • Nuovo digital divide: vantaggio per chi “dialoga con le macchine”, esclusione per chi resta senza competenze e accesso.
  • Oligopolio digitale: dipendenza da pochi provider (dati, compute, modelli) → asimmetria cognitiva e scarsa trasparenza.
  • AI-washing: iniziative “AI for Good” senza accountability né indicatori d’impatto verificabili.

Strumenti & leve

  • Open models & piattaforme: Mistral 7B, Llama 3, Hugging Face (per sperimentazione accessibile).
  • Policy & standard: AI Act UE, DSA/DMA/Data Act, OECD AI Policy Observatory per framework e valutazioni d’impatto.

Messaggio di fondo

  • L’AI può essere leva di riequilibrio sociale solo con competenze diffuse, apertura responsabile, governance condivisa e misure verificabili di impatto. La vera innovazione non è solo modelli più potenti, ma sistemi più equi.