In pochi ne parlano, ma il loro impatto nel settore tecnologico e in quello della green economy è gigantesco: sono i metalli rari, anche detti “terre rare” e sebbene giochino un ruolo fondamentale nella produzione di pannelli solari e batterie, sono tutt’altro che sostenibili. Sono risorse strategiche, ma non sono rinnovabili e vengono lavorate con alti costi per l’ambiente. Da dove vengono, come sono impiegati e quali conseguenze hanno da un punto di vista geopolitico?
Cosa sono le terre rare?
Lo sviluppo tecnologico degli ultimi 30 anni ha fatto sì che la maggioranza dei prodotti che utilizziamo quotidianamente, dai PC agli smartphone passando per le auto, siano sempre più complessi da costruire, soprattutto nella loro componente elettronica (i cosiddetti microchip). Per non parlare dei prodotti strettamente collegati alla green economy, in particolare nelle macchine elettriche e ibride, nelle batterie e nei pannelli solari.
Tale complessità si riversa anche nelle materie prime necessarie, che sempre più richiedono un gran numero di metalli difficili da reperire, spesso da combinare insieme. Tra questi spicca sicuramente un gruppo di 17 elementi della tavola periodica noto come Rare Earth Elements (REE); li elenchiamo per “dovere di cronaca”, anche se a noi magari non dicono nulla: scandio (Sc), ittrio (Y ), lantanio (La), cerio (Ce), praseodimio (Pr), neodimio (Nd), promezio (Pm), samario (Sm), europio (Eu), gadolinio (Gd), terbio (Tb), disprosio (Dy), olmio (Ho), erbio (Er), tulio (Tm), itterbio (Yb), lutezio (Lu).
A loro si aggiungono, ma attenzione a non confonderli, i cosiddetti «raw materials» ovvero le materie prime critiche che comprendono tra gli altri, i metalli ferrosi e i «non metalli» più noti, come il litio, il cobalto, il nichel, altrettanto indispensabili per le tecnologie green.
Sono infatti all’interno degli smartphone, nei touchscreen, nelle lampade, negli hard disk dei computer. Ma sono anche alla base di fibre ottiche e laser, di moltissime apparecchiature mediche, nelle batterie per le auto elettriche. Costituiscono magneti permanenti, sensori elettrici, convertitori catalitici indispensabili per automobili, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici. E su di loro è basata tutta l’innovazione legata all’industria medica, militare, automobilistica.
L’impatto ambientale, sociale e geopolitico dell’estrazione e lavorazione delle terre rare
Purtroppo, la loro massiccia presenza in apparecchiature complesse come quelle elettriche ed elettroniche si contrappone alla mancanza di infrastrutture adeguate per la raccolta e il recupero. È per questo che il tasso di riciclo delle terre rare è minore dell’1%.
Inoltre, un altro fattore importante che aumenta il danno all’ambiente causato, è associato alla loro estrazione ed elaborazione, che richiede l’uso di acidi e altri liquidi dannosi, creando così un ulteriore problema di smaltimento dei rifiuti.
Infatti, a dispetto del loro nome, sono in realtà ben diffuse nella crosta terrestre. Il cerio è presente con la stessa abbondanza del rame e due tra gli elementi più rari della serie (tulio e lutezio) sono 200 volte più abbondanti dell’oro. Ma a differenza del metallo prezioso, non esistono giacimenti di sole terre rare. Queste ultime sono diffuse in natura in un centinaio di minerali che le contengono in bassissime concentrazioni. Da qui la necessità di processi di estrazione e raffinazione molto complessi che richiedono, per separare i singoli elementi, l’utilizzo di potenti solventi come acido cloridrico o l’acido nitrico. Processi che presentano un drammatico impatto ambientale, con il conseguente inquinamento di suoli e falde acquifere.
Tali esigenze hanno generato elevati costi di produzione e problematiche che hanno contribuito alla chiusura di miniere e strutture di raffinazione in diverse aree del mondo, ponendo le basi per l’attuale situazione globale. Al momento, vi è un unico attore che domina incontrastato nell’estrazione e produzione di elementi rari: la Cina.
Il quadro, già di per sé complesso, è aggravato anche dalle condizioni geopolitiche dei paesi in cui si trovano la gran parte dei giacimenti minerari, spesso terreno di guerre e di instabilità politica, come abbiamo potuto vedere con le recenti vicende che hanno coinvolto l’Afghanistan, o paesi tradizionalmente al di fuori dello scacchiere politico, come l’Artico, che è invece balzato alle cronache per l’accaparramento di nuovi giacimenti, più facilmente accessibili con il disgelo del permafrost.
La crisi dei chip e le conseguenze sull’economia mondiale
L’odierna cosiddetta “crisi dei chip”, ossia la penuria di offerta di microchip che sta rallentando la ripresa economica globale è strettamente collegata agli elementi rari e alle condizioni del mercato globale, che registrano un’estrema concentrazione della produzione nel gigante asiatico sia dei dispositivi stessi, che dei materiali necessari a produrli. Con le incertezze geopolitiche derivanti dall’ascesa cinese, sommate all’inevitabile aumento dell’utilizzo di questi elementi critici dovuto alla transizione energetica e al settore IT esplosi durante la pandemia, l’approvvigionamento di questi materiali è diventato una questione strategica a livello mondiale.
Per Europa e USA è fondamentale poter diversificare i fornitori per non dipendere in tutto e per tutto dalla Cina e rimuovere così la possibilità di utilizzare le terre rare come strumento di ricatto non solo nelle controversie di politica estera ma a questo punto, anche nel processo di ricostruzione post-pandemica.
In quest’altro articolo vediamo alcune proposte concrete e soluzioni in via di sperimentazione.
Digital Strategist e fondatrice di Flowerista.
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