Vi sarà sicuramente capitato di notare che il descriptor sotto al logo Flowerista recita “Digital Ecosystem”. Ma che cos’è esattamente un ecosistema digitale? Come funziona al suo interno? E qual è la differenza con un collettivo di freelance, di cui abbiamo parlato in un recente articolo? La storia che state per leggere racconta di quel momento in cui Sara Malaguti, la founder di Flowerista, ha capito che 1+1 avrebbe potuto fare “infinito”, ma solo con una buona dose di organizzazione e una ancora maggiore di rispetto.
L’idea di collaborare con altre persone è sempre stata fortissima in me, non mi sono mai vista in una cavalcata solitaria verso una soddisfazione esclusivamente personale; ovviamente non c’è nulla di male nella visione del solopreneur, ma nella mia testa ho sempre pensato che, prima o poi, quel termine Flowerista avrebbe potuto abbracciare tante anime diverse.
Era anche il motivo per cui avevo scelto sin dall’inizio un brand name diverso dal mio nome e cognome.
C’è stato un preciso episodio che mi ha portato alla consapevolezza di voler dire addio alla solitudine e che ha contemporaneamente innescato il desiderio di cominciare a costruire qualcosa di più ampio: una richiesta, a inizio 2022, da parte di Monica e Simona, alle quali avevo dovuto dire di no, io quei servizi non potevo erogarli.
E mi spiaceva un sacco, perché con loro mi sarebbe davvero piaciuto lavorare. Monica e Simona oggi le trovate nella nostra community e sul nostro sito perché poi, fortunatamente, siamo riuscite a lavorare insieme e ci siamo anche trovate benissimo, ma riavvolgiamo il nastro, cos’era successo?
A inizio 2022 avevano appena avuto l’idea di avviare il loro progetto imprenditoriale condiviso, The Higher Self, una piattaforma per erogare corsi di yoga ma anche percorsi di meditazione, consulenze evolutive, retreat, seminari e molte altre attività legate al benessere mentale e fisico. Cercavano una realtà che potesse seguire a 360 gradi il loro avvio, dal business plan, alla creazione del sito, la brand identity e successivamente anche la strategia digitale. All’epoca, come qualcuno di voi sicuramente ricorderà, io facevo solo l’ultima parte, ovvero arrivavo alla fine del processo.
Di conseguenza, loro giustamente si sono rivolte altrove, ma per me quella è stata sia una grande fortuna che un grande insegnamento.
Fortuna, perché senza quel no probabilmente Flowerista non avrebbe questa veste ora, insegnamento perché ho cominciato a prestare ascolto a quante altre richieste simili, all-inclusive per così dire, rimanessero inevase, e ho potuto notare che effettivamente c’era un fortissimo vuoto di mercato nel soddisfare questi bisogni.
Per farla breve, la soluzione passava attraverso due step a mio avviso: cominciare a creare una rete di collaboratori validi, fidati, che potevano presentarsi sotto il cappello Flowerista senza perdere la loro autonomia; in seconda istanza dare una forma giuridica congrua a quella nuova assunzione di responsabilità, che non poteva che essere SRL appunto.
Perché non un collettivo, magari qualcuno si chiederà?
Anche in questo caso, come la presa di posizione nei confronti della visione da solopreneur di cui sopra, credo che la differenza stia nella direzione di lungo periodo che si vuole dare alla propria impresa: la mia ambizione mi ha sempre portato a vedere Flowerista come un punto di riferimento non solo nel panorama italiano, ma anche europeo.
Questo, nella mia testa, significava e significa tutt’ora poter contare su:
1) leadership, per quanto morbida e diffusa;
2) tassi di crescita importanti, per quanto sostenibili umanamente e finanziariamente;
3) riconoscibilità e autorevolezza agli occhi dei clienti, perché già è complesso spiegare cosa facciamo, se in più avessimo dovuto spiegare anche come lo facciamo in un collettivo, probabilmente sarebbe stato ancora più difficile.
Poi resta il fatto che le SRL sono nate secoli fa e non rappresentano in toto le finalità per cui si fa impresa oggi, per cui ecco che è subentrata anche la scelta di essere benefit. Ma questo aprirebbe la strada ad altri discorsi che lasciamo ad altri articoli.
Per rispondere dunque alla domanda iniziale, cos’è un ecosistema digitale, direi che è “una realtà imprenditoriale al cui interno vi sono tante aree di business diverse, ciascuna con una forte dose di autonomia e nessun tipo di esclusiva, molto ben coordinate tra loro grazie agli strumenti digitali e ad una leadership riconosciuta, che si identificano in un unico sistema di valori e agiscono per integrare in un’unica offerta i propri servizi, al fine di rispondere in maniera più tempestiva e olistica ai bisogni del cliente”.
È una definizione inventata da me, non l’ho cercata sul dizionario e non ho chiesto a ChatGPT, per cui mi perdoneranno i puristi e gli studiosi della materia.
Ma quindi è un’agenzia di comunicazione digitale che lavora in remote working?
No, non è nemmeno quello.
Innanzitutto perché ci occupiamo di molti più aspetti inerenti un business, specialmente creativo e culturale, ad esempio creiamo un ponte con la finanza agevolata, con il crowdfunding, con tutta la parte di sostenibilità economica insomma. E poi perché abbiamo integrato un modello di business che definirei quasi editoriale, da publisher o forse sarebbe meglio dire da influencer oggi, per cui offriamo, all’interno dei nostri molteplici canali e senza chiedere nulla in più, una visibilità che nessun’altra agenzia tout court è in grado di dare.
Infine, ultimo ma non ultimo e soprattutto senza accusare nessuno, abbiamo un rispetto per il lavoro delle persone e dei collaboratori che passa attraverso la garanzia dei pagamenti in tempi più che puntuali, nessun tipo di negoziazione per abbassare il prezzo e tirare il collo a chi ce lo ha proposto come fornitore, rispetto anche dei tempi di vita e degli impegni personali, che ovviamente vengono prima di qualsiasi impegno professionale. Di tutti questi aspetti si parla tanto, giustamente, nel manifatturiero, perché sappiamo che tante piccole imprese che lavorano conto terzi sono sfruttate dai big della moda ad esempio, ma se ne parla ancora troppo poco relativamente al lavoro intangibile ed intellettuale. Mi perdonerà Fiverr, ma sono abbastanza contro l’idea di pagare un logo design 30 dollari.
Questo rispetto per le persone ha ovviamente un suo costo intrinseco, che ci porta al tema successivo.
È sempre più conveniente per il cliente affidarsi ad un ecosistema? No, dipende dalle esigenze e, inutile negarlo, dalla capacità di spesa…
Se è forte la necessità di avere un unico interlocutore per tutti gli step di crescita del progetto, se si cerca anche una robusta componente di visibilità e networking per la propria impresa, se si ha poco tempo da dedicare alla parte operativa e si preferisce delegarla, allora assolutamente sì. Questi vantaggi vanno a compensare un prezzo che, come è scontato che sia, è leggermente più alto rispetto a quello che i singoli freelance possono offrire autonomamente, senza alcun tipo di coordinamento tra loro. Prezzo che deve anche tenere in piedi una struttura che comunque è più costosa di per sé, essendo appunto una società.
Senza dimenticare, comunque, che la varietà di servizi offerti è tale che spazia da una formula di abbonamento molto accessibile, sempre all-inclusive, che presuppone che sia il cliente a fare un po’ di operatività in più fino alla totale presa in carico da parte nostra del progetto, magari più adatta a PMI e realtà più grandi.
Questo articolo è il secondo di una serie in cui raccontiamo dall’interno il modello organizzativo e il modus operandi di Flowerista, andando ad ampliare e teorizzare quello che solitamente veniva convogliato ogni 3 mesi nella newsletter “Vita da Flowerista”. Tutto questo troverà poi un unico contenitore formale quando nei primi mesi del 2024 uscirà il libro “Ecosistemi ad impatto”, scritto da Sara Malaguti.
Digital Strategist e fondatrice di Flowerista.
Aiuto aziende e liberi professionisti a comunicare online, senza gridare. Mi occupo di trasformazione digitale in chiave sostenibile, per l’ambiente e per la società in cui viviamo.